Là dove la piazza del Foro comincia a salire verso il Palatino s’innalzava il tempio di più alto significato per la città e i suoi abitanti, dedicato alla dea del “focolare pubblico del Popolo Romano”: il Tempio di Vesta.
Attribuito dalla tradizione al re Numa Pompilio, in esso veniva custodito dalle Vestali il fuoco sacro perenne, espressione e simbolo della continuità della vita di Roma.
Nel luogo più interno e nascosto del tempio erano inoltre religiosamente conservati gli oggetti sacri (e tra di essi il Palladio, simulacro di Minerva) che, secondo la leggenda, Enea avrebbe portato da Troia come pegno e garanzia dell’impero.
Il tempio che, secondo alcuni, aveva forma rotonda perché nato come una capanna, sede del più antico focolare domestico, ed era aperto in alto per la fuoriuscita del fumo, fu ricostruito l’ultima volta sul finire del II secolo d.C. da Giulia Domna, moglie dell’imperatore Settimio Severo.
Accanto al tempio di Vesta la Casa delle Vestali era la residenza e la sede ufficiale delle sacerdotesse incaricate della sorveglianza del fuoco sacro che ardeva nel tempio e dei riti connessi al culto del focolare.
Le Vestali erano in numero di sei, entravano nel sacerdozio tra i sei e i dieci anni e vi rimanevano per trenta anni con l’obbligo della castità.
Erano scelte dal Pontefice Massimo che sorteggiava le “novizie” tra venti nomi di fanciulle proposte nel loro ambito dalle famiglie patrizie e in un secondo tempo anche da quelle plebee.
La Casa (che non a torto è stata considerata come il prototipo dei conventi moderni) era articolata sue due piani attorno ad un ampio cortile tenuto a giardino e circondato da portici sui quali s’affacciavano gli ambienti destinati al soggiorno e all’alloggio delle Vestali, ai servizi e al personale ad essi addetto.
In tutto autosufficiente, la Casa disponeva tra l’altro di una cucina, di un mulino e di un forno ancora riconoscibili.

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